Università Cattolica del Sacro Cuore

Unicatt, riflessioni d’Avvento

 

In occasione del centenario dell’Università, partendo dai brani evangelici delle domeniche di Avvento, sia in rito romano che in quello ambrosiano, vorremmo individuare un tema da approfondire con un breve scritto di uno dei nostri Docenti.

 

Lc 21, 5-28

 

Lc 19, 28-38

Alla luce del tema “il bisogno di Dio” abbiamo chiesto al prof. Lorenzo Fossati, docente di Storia della Filosofia, Facoltà di Scienze della Formazione, una riflessione al Vangelo in rito AMBROSIANO della quarta domenica di Avvento. 

 

«Il Signore ne ha bisogno!», dice Gesù e ripetono i discepoli che gli procurano il puledro d’asino per entrare a Gerusalemme verso la sua Pasqua.

Capiamo bene che cosa sia un bisogno, perché è senz’altro ciò che caratterizza l’uomo; l’ha fissato già Platone nel Simposio (200 A-E): a definirci è la mancanza, la penuria, e a muoverci è la ricerca di saziare la nostra incompletezza. E se sono mille le cose che inseguiamo, sappiamo già che guadagnatane una la fatica non sarà conclusa, perché una prossima meta già ci impegna, «come succede a chi, camminando lungo le rive del mare, non trova mai termine al suo procedere, perché dietro ogni sabbiosa quinta di dune, a cui si prefiggeva di arrivare, altre ampie distese lo attraggono più avanti, verso nuovi promontori», come scrive Mann nel prologo a Giuseppe e i suoi fratelli. Agostino aveva in mente proprio questo protendersi incessante, quando nelle Confessioni trovò le parole non solo per spiegarlo ma anche per prospettare un approdo: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (I, 1, 1). È quel «problema della vita» su cui insisteva Amato Masnovo, che trova la sua soluzione in un Dio che si offre come l’unico in grado di placare la nostra sete, perché ci ha fatti mancanti in un mondo che non offre nulla che ci possa completare, affinché fossimo costretti a domandarci di che cosa abbiamo bisogno davvero e a trovare questo qualcosa in lui. Il bisogno di Dio è sì il più essenziale, ma è anche quello che si nasconde nei mille che ci affannano e in cui possiamo riconoscerlo.

Ma questo è appunto il bisogno di Dio che ha l’uomo. Può avere un senso guardare all’espressione «dall’altro lato», cioè domandarci quale potrebbe essere il bisogno che ha Dio? Di che cosa potrà mai aver bisogno Dio? Noi siamo certamente sempre a chiedergli, ma che cosa mai potrebbe chiederci lui? Potrebbe forse trattarsi di uno scambio, di un commerciare? Certo che no, come dice Socrate a un frastornato Eutifrone: «Qual è il vantaggio che gli dei ritraggono dai doni che ricevono da noi? Ciò che essi danno è a tutti chiaro: infatti noi non possediamo alcun bene che non ci sia dato da loro. Ma dalle cose che ricevono da noi, essi, che vantaggio ritraggono? O vorrai credere che, in questo commercio, noi abbiamo tanto vantaggio su di loro al punto che, noi, da loro, riceviamo tutti i beni, mentre, essi, da noi, non ne ricevono alcuno?» (14 E - 15 A).

Eppure «Il Signore ne ha bisogno», dice Gesù e ripetono i discepoli. Qui in effetti si tratta di un comando perentorio, in cui si manifesta la regalità del Messia, figlio di Dio (Gn 49,11; Zc 9,9), acclamato dalla folla dei discepoli poco dopo; si vuole insomma ribadire come Dio non abbia alcun bisogno, nemmeno di dare spiegazioni, come una volta per tutte disse a Giobbe, rispondendo alle sue proteste: «Chi è mai costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante? Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente!» (Gb 38,1,3).

L’immagine di un Dio che ha bisogno dell’uomo, di qualcosa che soltanto l’uomo può dargli, in questo caso un puledro d’asino, è però troppo seducente per essere accantonata limitandosi a proclamare l’assoluta potenza della sua maestà. L’idea di un Dio che è amore, che dà e chiede amore, è qualcosa di più grande del commercio e dello scambio messo alla berlina già da Platone per bocca di Socrate: è l’idea di una relazione che per definizione necessita di tutti i diversi elementi per potersi stabilire. Siamo allora tentati di pensare che, se certo l’uomo non è se non con Dio, neppure il Dio di Gesù Emmanuele è se non con l’uomo. Ovviamente non è solo un caso se, nello stesso Vangelo di Luca, il saluto che l’angelo rivolge al Dio bambino, inerme nella mangiatoia di Betlemme – «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14) – ritorna nel saluto dei discepoli al Dio uomo che entra a Gerusalemme – «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» (Lc 19,38): un Dio parimenti inerme, che va incontro alla sua passione per affermare la sua potenza.

 

Alla luce del tema “la salvezza” abbiamo chiesto al prof. Vincenzo Valentini, docente di Radioterapia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, una riflessione al Vangelo in rito ROMANO della seconda domenica di Avvento. (Lc 3, 1-6)

 

Nelle pagine quotidiane dell’umano incontriamo occhi che cercano la salvezza: lo sguardo di un paziente oncologico alla notizia che la sua malattia avanza, i familiari fuori dalla porta di una rianimazione, i genitori nella sala di attesa di un ambulatorio di malattie rare, ma anche gli occhi di chi cerca ancora un amore dopo tante delusioni, di chi ha perso la reputazione, di chi non ha più il lavoro e deve ritornare a casa.

Cosa vedevano gli occhi di Maria nel bimbo della stalla di Betlemme, di Giovanni sulle rive del Giordano, di Gesù quando, andando verso Gerusalemme, rispondeva agli apostoli che gli chiedevano chi di loro fosse il più grande, quando veniva flagellato e quando dava un appuntamento al ladrone?

Cosa hanno visto i discepoli alla mensa di Emmaus, Tommaso mentre metteva il dito nella piaga?

Cosa vediamo noi quando il pane e il vino eucaristico, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, vengono offerti al Padre?

Cosa vediamo quando una madre veglia di notte un figlio che piange, un marito le si offre per darle il cambio, un infermiere aiuta un allettato a lavarsi, un giovane ascolta pazientemente un nonno, un lavoratore fa bene il suo lavoro, un insegnante accende il desiderio di conoscenza dei suoi studenti, un politico privilegia il bene comune, un’azienda rispetta l’ambiente, un povero trova cibo e rifugio?

‘Donami il tuo cuore, ti darò i miei occhi’ (Se non diventerete come gufi, P.M.Rupnik - 2001). Lo Spirito, fuoco e luce, chiede di abitare in noi, ci apre gli occhi come ai discepoli di Emmaus, come a Tommaso, come alla sua Chiesa che si riunisce nella Liturgia, che vive i suoi Sacramenti e che in ogni gesto di Amore dell’umano, ci unisce tutti, figli nel Figlio, di un unico Padre.

‘Ti sembra giusto che io debba morire così, senza soffrire niente?’ confidava la madre al figlio negli ultimi giorni del suo tramonto, quando, piena di tumore, ma con una luce speciale negli occhi, lo salutava per l’ultima volta. Aveva tanto pregato perché il suo tumore non la portasse via in malo modo, ma la Salvezza era venuta ad abitare in lei.

La Salvezza è un incontro, un incontro con qualcuno che ci ama: è sempre l’amore che ci fa assaporare qualcosa che somiglia alla Salvezza. Perciò a Natale la Salvezza ci viene presentata con il volto di un bambino: il Salvatore, non porta soluzioni immediate, porta Amore che rimane la cura eterna.