Tutte le meravigliose persone che ho conosciuto durante il mese di missione al Centro de Convivência di Santa Doroteia a San Paolo, in Brasile, che prima ancora di aprire le porte delle loro case ci hanno aperto quelle dei loro cuori, mi hanno fatto capi­re quanto sia importante onorare la nostra storia, anche se questa ci ha portato sofferenza, perché come mi ha detto Clayton, il papà della famiglia in cui sono stata o­spite: «Non serve a nulla cancellare, va preso il bello e il brutto di ogni cosa, altrimenti non si impara mai».

Questo viaggio ha ampliato fuori e dentro me orizzon­ti impensati, perché ho permesso a me stessa di la­sciarmi stupire dalla vita, mi sono guardata attorno e ho lasciato fare. Credo che se si è abbastanza coraggio­si da lasciare indietro tutto ciò che ci è familiare - dal­la propria casa ai vecchi rancori - e partire alla ricerca della verità, se si considera quello che ci capita come un indizio, se si accettano quelli che incontriamo stra­da facendo come insegnanti e se si è preparati ad af­frontare e perdonare alcune realtà di noi stessi davve­ro scomode, allora la verità non ci sarà preclusa. Io sono riuscita a compiere questo passaggio in più di consapevolezza nella mia ricerca.

In missione ho sperimentato un sentimento di mater­nità “spirituale” con i bambini con cui vivevo ogni giorno: sentivo quelle corde che si intrecciavano e tremavano insieme, arrivando a vedere il mondo con occhi che non erano più solo i miei. Mi sono spogliata di tutto arrivando così in fondo da interrogarmi molto sulla donna che voglio essere nel mondo e come, nelle relazioni con gli altri e con me stessa.

Per troppo tempo mi ero persa dietro all’idea che una vocazione fosse qualcosa da associare al mestiere che si vuole svolgere, senza considerare che si tratta di un dono, un talento che ci viene affidato e che va coltivato. Oggi ho capito che quella che potrebbe sembrare solo un’esperienza è forse la mia vocazione più grande, che voglio alimentare. Durante questa missione mi sono sentita la pedina di un grande progetto pensato da Qualcuno che “conosce persino il numero dei capelli sulla mia testa” e che mi ha dato la lezione dell’amore che resiste, sopravvive e si moltiplica.

Mi piace pensare che siamo nati tutti per disegni più grandi, e che ai nostri cuori non viene mai impedito di restare colmi d’amore. Ho smesso di interrogarmi sull’utilità del dolore. Solo se imparo a non aver paura di ciò che è accaduto e di ciò che potrà accadere posso continuare a camminare. La missione ha portato gran­de pace nel mio cuore e la voglia di imbarcarmi ancora, finché potrò e dove la vita vorrà mandarmi.

Greta Castaldi

Ho vissuto la mia esperienza in missione, insieme a Gabriela e Silvia, a Rishabhdeo, nello Stato indiano del Rajasthan, dove siamo state ospiti delle suore della congregazione delle Nirmala Sisters, come sono chia­mate localmente le Missionarie dell’Immacolata.

La missione è organizzata attorno a un grande prato verde circondato da colline che sembrano disegnate. Andando in ordine troviamo: la casa delle suore, il col­legio femminile, l’infermeria - riferimento per tutti i villaggi circostanti -, la chiesa, la scuola frequentata da 200 studenti e studentesse, il collegio maschile e la casa del sacerdote. Le nostre quattro settimane indiane sono state caratterizzate da giornate che scorrevano lente, che ci hanno richiesto di adattarci a quei ritmi. Ci siamo spostate un solo giorno, per visitare Udaipur, per il resto abbiamo dovuto essenzialmente “stare”. A volte solo tra di noi, perché le attività delle suore e della scuola prose­guivano come di consueto. Ecco che il saper “stare” ha rappresentato la sfida e la ricchezza, perché la missio­ne non è solo e sempre “fare”: ce l’avevano detto ma io l’ho davvero capito solo in India.

Rientrata in Italia, tra gli impegni e nei ritmi quotidiani, quel saper “stare” è diventato un obiettivo: essere con­sapevole del qui e ora, certo con una progettualità ma sapendo ringraziare per quello che sto vivendo, è una lezione imparata nei giorni a Rishabhdeo.

Prima di partire pensavo che a impressionarmi sareb­bero stati i colori dell’India e, invece, sono stati i suoni. Il rumore dei clacson nelle strade per avvisare i cambi di corsia. La nostra sveglia alle 5.30 con la musica indiana amplificata da un megafono, che avvisava i 200 ragazzi di alzarsi e prepararsi per la Messa. Le preghiere e i canti durante la celebrazione che, con il passare dei giorni, hanno iniziato a essere familiari anche per me, tanto che al ritorno in Italia ne ho sentito la mancanza: erano diventati parte della preghiera. Altri suoni quoti­diani erano quelli della cucina: il rumore del matterello per stendere la pasta del chapati e lo sfrigolio dell’olio nella padella per cuocerlo. E poi la campanella di suor Pramila che scandiva le diverse attività delle bambine, e le voci delle ragazze quando dicevano “didi”. La prima volta è stato un pomeriggio, noi le aspettavamo per l’at­tività e loro sono arrivate, tutte in fila, dicendo: «Good afternoon didi». Noi abbiamo sorriso, ma non abbiamo davvero capito. Poi, suor Ignacia ci ha spiegato che è un termine affettuoso per indicare una sorella maggiore. Quel didi, ripetuto durante le attività, era un suono dolce, che ha assunto un significato importante: le bambine ci chiamavano per aver la nostra attenzione, e lo facevano nella loro lingua, che bellezza!

Giovanna Mazzini