Università Cattolica del Sacro Cuore

Canto delle palme

E il Messia, mite, come il puledro dell’asina, il Messia che non alza la voce, prende il treno che da Torino scende verso Salerno, e passa per tutto un corridoio di seconda e una carrozza di immigrati, attraversa un popolo di mamme e di nonne, di operai della Fiat, che tira fuori torte, biscotti, panini al prosciutto per il viaggio, non si sa mai. Il Messia passa anche per la prima classe, in mezzo agli scribi, ai dottori e ai farisei, ma piace di più la caciara di seconda a questo Messia mansueto, e scende così per questa masnada sguaiata, e tutti gridano, lo chiamano con il suo semplice nome – «Salvatore!», «Totò!» – e alzano le mani, si sporgono dagli scomparti e si accalcano, perché vogliono toccarlo, si danno baci umidi alle mani, per attaccarli alla carne del Messia sul vagone del treno. E quando passa per il corridoio tutti si spostano, matrone in carne che non hanno rami di palma scostano corpose valige per far passare il Messia, e lo salutano, gli fanno segno di passare, gli fanno complimenti, lo toccano.

Il Messia attraversa questa natura e questa storia, e vede che è molto buona, e pensa alle due parole italiane che questo popolo ha creato per sé: «bravo» e «allegria». E il Messia sorride per queste due semplici parole, e le fa sue, e benedice in queste parole tutte queste moltitudini, le folle e gli scugnizzi sul treno di seconda classe.

E se qualcuno è rimasto solo, se qualcuno è rimasto in piedi nel corridoio, per il corridoio incontra il Figlio dell’uomo che passa; questo è il suo giorno, ed anche il Messia non ha un posto per sedersi, un posto dove posare il capo. E nel corridoio c’è in piedi uno straniero, che non parla italiano, e che non intende, ma ride a braccia conserte, benedetto della pace dei semplici, e li Messia passa, tocca anche lui, e ride.

Quando vede questo Messia, che dalla Galilea scende col treno per Gerusalemme, la gente sale sui tetti, riempie i balconi dei vicoli stretti, delle case segnate dall’umidità, e si sporge per toccare la carne della vita. E Dio ride, insieme a questa umanità scompaginata, e rilancia la sua promessa, e dice ancora: «Facciamo l’uomo!». Allora, davanti alle mamme, alle torte, offre per tutti un pane di oggi, e dice: «Il pane, sono io». E si ricorda anche lui delle nonne, degli avi, di tutta quella marmaglia e dei bassifondi della Galilea che corrono ad acclamare il Cristo proletario, il Messia provinciale, che nella bassa è rimasto a casa trent’anni, ed egli è Dio di queste tonnellate e tonnellate di esistenza.

Benedette le case popolari di Zabulon e le favelas di Neftali,

sulla via del mare, al di là del Giordano,

Galilea delle genti,

poiché i tuoi figli hanno toccato una carne di vita.

E Dio vede tutta un’umanità sgarrupata, dispersa e lieta sui colli di una favelas, come pecore senza pastore, e li raduna, li chiama per nome, a venire intanto che passa. È questo il mistero di una chiesa infinitamente chioccia, la vite del deserto, che stende il suo tiepido manto dall’odore di madre su queste tonnellate benedette di esistenza; è lei stessa questa umanità senza un’idea, che grida, salta e si agita per questo Messia buono che passa. E il Messia la benedice: «Sia la pace».

M. Bergamaschi – Canto delle palme